Capitolo quattro: Le crepe nella porcellana
La cena alla Tavola d'Onore era sempre silenziosa: un rito levigato, formale, freddo.
Eira sedeva al suo solito posto, con la schiena dritta e il tovagliolo piegato con cura in grembo, davanti a un piatto di porcellana riempito di cibi che non sceglieva mai. I suoi genitori le stavano di fronte, affiancati da consiglieri e nobili ospiti. Le candele tremolavano in candelabri dorati. I servitori versavano vino e sussurravano aggiornamenti dalle province esterne.
Eppure, nessuno le rivolgeva la parola.
Parlavano come se lei non ci fosse.
«L'Alpha di Redstone ha confermato che presenzierà alla cerimonia», disse suo padre a sua madre, senza degnare Eira di uno sguardo. «E le terre della dote sono state finalizzate. Thorne ne è stato molto soddisfatto».
Sua madre annuì, sorseggiando da un calice di cristallo. «Organizzeremo il rito del legame sulla terrazza est. C'è più luce. Le sacerdotesse approveranno».
«Il consiglio ha suggerito che l'unione venga testimoniata», aggiunse suo padre con nonchalance, infilzando un pezzo di carne arrosto con la forchetta. «Un'unione pubblica sotto la luna, per garantire trasparenza e la benedizione divina».
Sua madre annuì di nuovo. «Il popolo si aspetterà di vederla. Affermerà il suo ruolo. La sottomissione deve essere visibile».
Lo stomaco di Eira si rivoltò. Quasi si strozzò con il vino.
«Non ho mai acconsentito», disse a bassa voce.
«Le sarte hanno modificato l'abito per adattarlo ai simboli della Luna?»
«Sì. Alder ha richiesto una prova privata prima della cerimonia».
Il petto di Eira si strinse. Socchiuse le labbra.
«Non ho mai acconsentito», ripeté a bassa voce.
Loro non si interruppero.
«La guaritrice ha confermato che i suoi cicli si sono allineati?» chiese suo padre.
La mano di Eira si strinse a pugno in grembo.
«È fertile», rispose sua madre. «Tutto procede esattamente come abbiamo pianificato».
Come abbiamo pianificato.
Non lei.
Mai lei.
Eira si alzò di scatto. Il rumore della sedia che strisciava sul pavimento rimbombò nella stanza altrimenti silenziosa. Tutti i volti si girarono verso di lei, ma i suoi genitori apparvero semplicemente infastiditi, non preoccupati.
«Sono seduta proprio qui», disse, con la voce che le tremava. «Parlate di me come se fossi un recipiente. Uno strumento. Come se non esistessi».
La mascella di sua madre si tese. «Eira, questo non è il luogo adatto...»
«Non è mai il luogo adatto», sbottò lei. «Non è mai il momento. Mai quello giusto. Perché la mia vita è stata decisa nell'istante in cui sono nata, non è vero?»
Lo sguardo di suo padre si indurì. «Sei stata scelta dalla Dea. Questo è il tuo dovere».
«No. È la vostra visione. La vostra eredità. La vostra preziosa alleanza. E io? E se io non lo volessi?»
Calò il silenzio.
La voce di sua madre divenne glaciale. «Farai ciò che ti è richiesto. Sei la Luna. E le Lune non mettono in discussione il proprio posto».
Il respiro di Eira si fece affannoso. Il suo corpo tremava, non di paura, ma di furia.
«Non sono di porcellana», disse. «E non sono una vostra merce di scambio».
Poi si voltò e se ne andò.
Nessuno la seguì.
Attraversò rapidamente la sala, la rabbia che la accecava di fronte agli sguardi sorpresi di servitori e guardie. Aveva i pugni serrati lungo i fianchi, il cuore che le martellava nel petto, la mascella contratta. Non si fermò finché non raggiunse il corridoio vicino alle sue stanze, finché non la vide appoggiata al muro.
Clara.
La figlia del Beta.
Avvolta in una seta fin troppo audace per una cerimonia formale, le sue labbra si incurvarono in un sorrisetto appena vide Eira. Si raddrizzò pigramente, incrociando le braccia sotto il seno.
«Problemi in paradiso?» tubò Clara. «Te ne sei andata sbattendo la porta come una bambina a cui hanno negato il dolce.»
Eira non rispose. Tentò di superarla.
Ma Clara le si parò davanti, lo sguardo che brillava di una luce maligna.
«Sai,» disse, abbassando la voce, «non parla di te. Non quando scopa con me.»
Eira si bloccò.
Clara si avvicinò ancora, il suo alito caldo e crudele.
«Però è più rude quando pensa a te. Come se cercasse di dimenticare quanto sei fredda. A lui piace farlo in modo selvaggio. Rumoroso. Fino a lasciare i lividi.» Sorrise, mostrando i denti. «Ma tu non ne sai niente, vero?»
Eira non parlava. Non ci riusciva. Aveva la bocca secca, il petto che le bruciava.
Clara indietreggiò con una risatina. «Non hai la stoffa della Luna, tesoro. Sei una decorazione. Qualcosa da appendere al suo braccio mentre lui, al buio, si scopa le donne vere.»
Detto questo, si voltò e si allontanò ancheggiando, lasciando Eira in piedi nel silenzio in cui era cresciuta, solo che adesso aveva un sapore amaro.
Eira entrò nelle sue stanze e chiuse la porta con mani tremanti. Il silenzio all'interno era denso, soffocante. Fissò il proprio riflesso nello specchio dall'altra parte della stanza: i capelli perfettamente intrecciati, la pelle impeccabile, gli occhi sgranati di dolore represso.
Odiava ciò che vedeva.
Attraversò la stanza, si strappò le forcine dai capelli e le gettò a terra. Uno dopo l'altro, si sfilò gli strati del vestito, liberandosi di seta e pizzo come di una seconda pelle, finché non rimase vestita soltanto della rabbia silenziosa che le scorreva nelle ossa.
La stavano vendendo. Mettendo in mostra. Usando.
E ora l'avrebbero umiliata di fronte all'intero branco. Marchiata. Spezzata.
I suoi genitori non la amavano.
Alder non la voleva.
E Clara le aveva appena inciso la verità nel petto con ogni sua parola velenosa.
Eira si avvicinò alla finestra e guardò gli alberi illuminati dalla luna che costeggiavano la tenuta. La stessa foresta che l'aveva sempre chiamata in sogno. La stessa che ancora le sembrava l'unica cosa reale che avesse mai conosciuto.
Serrò la mascella.
Non sarebbe stata presente alla cerimonia.
Non avrebbe permesso loro di vederla cadere.
Sarebbe fuggita.
Quella notte, sarebbe tornata a essere sua.
Non c'era tempo per un piano. Nessuno spazio per i sentimentalismi.
Non poteva portare nulla con sé: né cibo, né vestiti, nemmeno il pugnale nascosto sotto il materasso. Avrebbero fiutato il suo odore se si fosse attardata. E se l'avessero presa…
Non si permise di pensare a tanto.
Si spogliò completamente, avvicinandosi al lato opposto della stanza, dove la luce della luna pioveva dalla finestra aperta. Le pulsazioni le rimbombavano profonde nelle vene. Erano settimane che non si trasformava, da quando le sacerdotesse avevano iniziato a prepararla per i riti della Luna. Ma la sua lupa era ancora lì. Sepolta sotto strati di seta e dovere.
In attesa.
Cadde in ginocchio, a occhi chiusi, il respiro tremante. Le ossa le dolevano per la tensione familiare. Poi, uno schiocco straziante dopo l'altro, si lasciò andare.
Il suo corpo si piegò, si spezzò, si rimodellò. La pelliccia le squarciò la carne. Le unghie si incurvarono in artigli. La bocca si tese in un ringhio silenzioso. Il dolore era incandescente, ma era reale. Era suo.
Quando la trasformazione finì, al centro della stanza c'era una lupa bianca: snella, agile, con gli occhi selvaggi.
Diede un'ultima occhiata alla vita che si stava lasciando alle spalle.
Poi saltò dalla finestra.
E svanì nel bosco.
