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Era un altro giorno di pioggia a Thornmere Town. Una cittadina così intrisa di malinconia e pioggerellina che il suo stesso nome sembrava uno scherzo crudele. Chi mai, sano di mente, aveva pensato fosse una buona idea chiamare Thornmere un posto con più di centosettanta giorni di pioggia all'anno? Ero bloccata in quella fossa desolata da sette mesi e contavo i giorni che mi separavano dalla partenza. La mia fuga dipendeva dalla fine del mese e dallo stipendio che aspettavo dall'Ophelia Frost Café.
Era il 29 ottobre, una data che si sarebbe incisa nella mia memoria per il resto della vita. Fu il giorno in cui lo incontrai.
Il caffè era senza vita quanto le strade bagnate di pioggia là fuori. Io e Naia stavamo annegando nella noia, ammazzando il tempo a pulire, e poi a ri-pulire, ogni cosa a portata di mano.
«Pensi che la Frost ci lascerà andare a casa prima, oggi?» domandò Naia, giocherellando con l'orlo del suo straccio. «Nessuno sano di mente uscirebbe con questo tempo.»
Risi tra me e me, scuotendo la testa di fronte al suo ingenuo ottimismo. «Neanche per sogno. Anche se questo posto restasse vuoto per settimane, troverebbe qualcosa da farci lustrare. Magari ci darebbe dei pennelli e ci direbbe di ridipingere le pareti.»
Naia schioccò la lingua, seccata. «Sei impossibile, Thalassa. Non sei per niente divertente.»
Prima che potesse lanciarmi lo straccio, il campanello sopra la porta tintinnò, salvandomi dalla sua ira. Trattenemmo entrambe il fiato, pregando che fosse un cliente capace di rendere la nostra giornata meno deprimente, e magari di lasciare una mancia. Ma invece della salvezza, fummo accolte dalla vista fradicia dei nostri gemelli di sei anni preferiti, Jorvik ed Elowen, che con i loro impermeabili gialli sgargianti stavano creando delle pozzanghere sul pavimento.
«Jorvik? Elowen? Perché non siete a scuola?» chiesi, un po' divertita e un po' preoccupata.
«La scuola si è allagata!» esclamò Elowen con un sorriso furbo, mostrando i denti. «Vogliamo i muffin al cioccolato di Thalassa!»
Sospirai, scuotendo la testa, ma non potei fare a meno di sorridere al loro entusiasmo. Quei due erano gli unici raggi di sole in quella cittadina uggiosa. Se c'era qualcosa che mi sarebbe mancato dopo la partenza, erano proprio le loro facce sempre sorridenti.
«Siete fortunati» dissi, prendendo due muffin appena sfornati dal vassoio. «Questi sono al cioccolato bianco e lamponi.»
Divorarono i muffin come piccoli tornado, finendo a tempo di record.
«Super buoni!» dichiarò Jorvik, leccandosi il cioccolato dalle dita.
«Sono contenta che vi siano piaciuti» risposi con un sorriso caloroso. «Ora sbrigatevi a tornare a casa, sembra che la pioggia stia solo peggiorando.»
«Certo, Thalassa!» esclamarono in coro mentre uscivano.
Naia li salutò con la mano e io afferrai il mocio per pulire la scia d'acqua che si erano lasciati dietro.
«Sai» disse Naia, appoggiandosi pigramente al bancone, «la Frost dovrebbe pagarti di più. Se non fosse per i tuoi muffin, nessuno si prenderebbe il disturbo di venire qui a bere quella scusa di caffè.»
«Dovrebbe» concordai con un sorrisetto.
«Dico sul serio. Quella macchina del caffè si rompe un giorno sì e uno no. Senza i tuoi dolci, questo posto sarebbe fallito secoli fa» disse, incrociando le braccia.
«Ma ormai non ha più importanza» replicai, scompigliandole i ricci in modo giocoso. «Tra due giorni me ne sarò andata. Prenderò lo stipendio e mi lascerò alle spalle questa cittadina fradicia.»
«Perché? Cioè, capisco, questa città è uno schifo, ma è un po' meno uno schifo con te qui» si lamentò Naia.
«Non riesco a stare ferma in un posto troppo a lungo» ammisi con un sospiro.
«Ah, quindi sei una di quelle. O in cerca del tuo posto nel mondo, o in fuga da qualcosa» scherzò lei.
Le sue parole colpirono più nel segno di quanto volessi ammettere, ma riuscii a forzare una risata nervosa. «Forse un po’ entrambe le cose».
«Meglio così» disse lei, sistemandosi i capelli all’indietro con le dita. «Sarebbe uno spreco se una come te ammuffisse qui. Però mi mancherai».
«Anche tu mi mancherai» risposi, ritirandomi nel retro con il mocio.
Prima che potessi sparire del tutto, il campanello sopra la porta tintinnò di nuovo. Sylas e Rowan, due guardie della fabbrica, entrarono strascicando i piedi, scrollandosi di dosso la pioggia come un paio di cani fradici.
«Santo cielo, Sylas!» sbottai. «Ho appena lavato il pavimento!»
«Scusa, scusa!» si scusò lui, mortificato.
Mentre Naia versava loro il caffè dalla caraffa di riserva — dato che la macchinetta aveva deciso di lasciarci a piedi un’altra volta — notai che il campanello sopra la porta pendeva storto. In punta di piedi, allungai le braccia per raddrizzarlo.
Fu in quel momento che la porta si aprì di colpo, cogliendomi alla sprovvista e facendomi perdere l’equilibrio.
Oh no, sto per cadere! Il pensiero mi attraversò la mente mentre mi preparavo all’impatto. Ma invece di schiantarmi sul pavimento, atterrai tra due braccia forti.
Quando riaprii gli occhi, mi ritrovai a fissare il viso più affascinante che avessi mai visto. I suoi capelli argentati sembravano brillare anche nella luce fioca della caffetteria, e i suoi penetranti occhi grigi parevano risplendere. Spesse ciglia nere incorniciavano il suo sguardo ultraterreno e, per un istante, dimenticai come si respirasse.
«Sei… il mio angelo?» Le parole mi sfuggirono prima che potessi fermarle.
Le sue labbra si incurvarono in un lieve sorriso mentre mi rimetteva in piedi. Solo allora mi resi conto di quanto fosse alto, di come il suo abito nero gli stesse alla perfezione sotto un lungo ed elegante cappotto. Non assomigliava per niente alla gente del posto e la sua presenza sembrava quasi irreale.
«Ehm… grazie» balbettai, più imbarazzata che mai.
«Prego» disse lui, con una voce così profonda e vellutata da farmi venire i brividi lungo la schiena.
Mentre mi passava accanto per sedersi a un tavolo, mi voltai per prendere un menù dal bancone, sorprendendo l’espressione a bocca aperta di Naia.
«È così sexy» sussurrò, quasi senza riuscire a contenere la voce.
«Ricòmponiti» sibilai, cercando di fare altrettanto.
«Non ci riesco» disse lei, fissandolo con desiderio palese. «Gli farei un figlio qui, su due piedi».
«Naia!» la rimproverai, ma anche il mio cuore batteva all’impazzata mentre mi avvicinavo al suo tavolo.
«Come mai i guanti?» chiese all’improvviso, con lo sguardo fisso sulle mie mani.
«Oh, questi?» Risi nervosamente, nascondendo le mani guantate dietro la schiena. «Solo… un’abitudine».
«Un’abitudine» ripeté lui, con un sorrisetto che lasciava intendere di non credermi.
«Cosa posso portarle?» chiesi, nel disperato tentativo di cambiare argomento.
«Un caffè, magari?» disse con un filo di divertimento.
«Non glielo consiglierei» ammisi, sentendo le guance avvampare. «La nostra macchinetta del caffè è rotta, e quello di riserva è… be’…»
«Sono sicuro che il caffè fatto da te mi piacerà» disse, con voce bassa e decisa.
Le sue parole mi diedero una scossa e faticai a mantenere la calma. «P-perché pensa questo?»
Lui si appoggiò leggermente all’indietro, i suoi occhi grigi inchiodati ai miei. «Perché» disse con una debole risata, «profumi di sole».
