Capitolo 5
Evelyn
La mattina seguente, mio nonno e io arrivammo all’imponente facoltà di medicina della Seattle University.
«Pronta?» mi chiese il nonno stringendomi la mano, i suoi occhi d’argento che brillavano di determinazione.
Annuii, lisciandomi la semplice camicetta nera che avevo scelto per l’occasione. Tre anni prima, avevo sognato di varcare quelle porte come matricola di medicina. Ora ero di nuovo lì, ma in circostanze molto diverse.
L’ufficio del preside Fernandez era esattamente come ci si aspetterebbe da qualcuno con un disperato bisogno di impressionare: mobili sfarzosi, opere d’arte pretenziose e una scrivania grande abbastanza da compensare qualcos’altro. Lui era un uomo alto e magro, con capelli sale e pepe acconciati con cura e il sottile odore di un lupo mannaro purosangue.
Dopo che la sua segretaria se ne fu andata, chiudendosi la porta alle spalle, il sorriso professionale di Fernandez svanì.
«Signorina Gray», disse, senza nemmeno preoccuparsi di offrirci da sedere, «noi ci vantiamo di accettare solo i migliori studenti di tutta la regione».
«Mia nipote si è diplomata come prima del suo corso a Portland», ribatté il nonno. «I suoi punteggi di attitudine medica sono eccezionali».
L’espressione di Fernandez rimase gelida. «Risultati accademici a parte, ci sono… altre considerazioni».
Sapevo cosa stava per arrivare.
«Il suo “incidente” di tre anni fa è ben noto nei nostri ambienti, signorina Gray», disse, abbassando la voce nonostante fossimo soli. «Non possiamo rischiare di avere una studentessa con i suoi… particolari problemi».
Serrai la mascella. «È passato molto tempo».
«Davvero?» inarcò le sopracciglia. «Il nostro istituto ospita i figli di famiglie importanti e futuri leader. E… anche degli umani».
La presa di mio nonno sul bastone si strinse finché le sue nocche non diventarono bianche. «È oltraggioso! La famiglia Gray sostiene questa università da generazioni!»
«I tempi cambiano, signor Gray», replicò Fernandez freddamente. «L’influenza della sua famiglia non è più quella di una volta».
Prima che la discussione potesse degenerare, il telefono di Fernandez vibrò. Lui diede un’occhiata allo schermo, si accigliò e si congedò. «Devo rispondere. Vi prego di attendere».
Appena uscì, mi voltai verso mio nonno. «Non fa niente. Non ho bisogno di frequentare questa università. Il corso di Portland va benissimo».
«Assolutamente no», ringhiò lui. «Il tuo posto è qui, a Seattle. Questa è casa tua».
Cinque minuti dopo, Fernandez tornò, con un atteggiamento completamente trasformato.
«Dopo un’ulteriore valutazione», annunciò, lisciandosi la cravatta, «ho deciso di accettare la domanda di trasferimento della signorina Gray».
Strizzai gli occhi. «Cosa le ha fatto cambiare idea?»
Una strana espressione gli attraversò il viso. «Diciamo solo che mi sono state ricordate le sue… doti uniche. Mi risulta che lei abbia eccezionali capacità mediche, in particolare nel trattamento di… condizioni speciali».
Mi si drizzò la schiena. Si stava chiaramente riferendo alla mia capacità di curare le ferite da proiettile d’argento, un’abilità specializzata per aiutare i lupi mannari feriti. Ma come faceva a saperlo?
«Tuttavia», continuò, «sarà inserita nella Classe Medica Otto. Gli studenti di quel corso non sono… i nostri migliori elementi».
Il nonno fece per protestare, ma gli strinsi il braccio. L’importante era essere ammessa; potevo gestire un’assegnazione a una classe di basso livello.
«La ringrazio per l’opportunità», dissi, sforzandomi di mantenere un tono cortese.
Più tardi, quel pomeriggio, un uomo calvo, che odorava di gesso e caffè, mi condusse nella Classe Otto. L’aula si trovava all’estremità della facoltà di medicina, illuminata da luci al neon tremolanti e con banchi usurati.
«Salve a tutti, lei è Evelyn Gray», annunciò senza entusiasmo. «Si unirà a noi a partire da oggi».
Feci una breve presentazione, tenendo lo sguardo fisso sulla parete di fondo invece che sulle trenta paia di occhi sospettosi che mi stavano esaminando.
«Non è quella della famiglia del branco caduta in disgrazia?»
«Ho sentito dire che l'hanno cacciata per qualcosa di molto grave...»
«Ma perché è tornata a Seattle?»
I sussurri non erano affatto discreti. In un angolo in fondo all'aula, notai quattro studenti dall'inconfondibile odore di lupo mannaro che evitavano deliberatamente il mio sguardo.
Uno di loro borbottò: «La stramba bianca è tornata», a voce abbastanza alta perché il mio udito potenziato potesse sentirlo.
Mantenni un'espressione neutra e presi posto in un banco vuoto vicino alla finestra.
Anche se a Portland avevo studiato la maggior parte delle materie da autodidatta, il regolamento della scuola mi obbligava a recuperare alcune lezioni di base prima di poter ottenere i crediti ufficiali.
Mentre il professor Patterson parlava con tono monotono di strutture cellulari, una ragazza bionda due file più avanti continuava a girarsi per fulminarmi con lo sguardo. Quando finalmente la lezione finì per la pausa pranzo, si avvicinò al mio banco, affiancata da tre amiche dall'aria altrettanto ostile.
«Hai un bel coraggio a farti vedere qui», disse, a voce abbastanza alta da farsi sentire da tutti. «Sei Evelyn Gray, vero?»
La squadrai con freddezza. «E tu saresti?»
«Jessica Foster». Si scostò i capelli con un gesto teatrale. «Tutti sanno di te: cacciata dalla tua stessa famiglia, in giro con teppisti di strada, rimasta incinta e poi hai abortito. Fai schifo».
Essere bandita dalla mia famiglia per i miei problemi con la trasformazione era già abbastanza terribile, ma che fossero arrivati a diffondere menzogne sul mio conto, dicendo che frequentavo dei criminali, persino agli umani... quello superava davvero ogni limite.
Cominciai a mettere via i libri. «Storia affascinante. L'hai scritta da sola o ti sei fatta aiutare?»
Il suo viso si arrossò. «Pensi di essere migliore di tutti gli altri? Quelli della tua specie mi fanno vomitare».
Mentre mi alzavo per andarmene, Jessica si mosse per bloccarmi il passaggio. «Non abbiamo ancora finito di parlare».
Fu allora che notai il grosso anello d'argento che portava al dito, pericolosamente vicino al mio braccio. Dato che la maggior parte degli umani non sapeva distinguere chi fosse un lupo mannaro, indossavano gioielli d'argento per proteggersi. Per lei era solo un gioiello; per me, una potenziale arma.
«Devo andare in biblioteca», dissi, indietreggiando con cautela per allontanarmi dall'argento. «Spostati, per favore».
«Altrimenti?» Jessica si fece più vicina, il suo anello d'argento ora a pochi centimetri dalla mia pelle.
Sentivo gli sguardi attenti dei lupi mannari nella stanza, che probabilmente si chiedevano se avrei perso il controllo.
«Non ho alcun interesse a creare problemi il mio primo giorno», dissi a bassa voce, «ma non scambiare la mia moderazione per debolezza».
Qualcosa nel mio tono la fece esitare. Approfittai di quel momento per aggirare il suo gruppo e dirigermi verso la porta.
Ore dopo, sfrecciavo lungo l'autostrada costiera in sella alla mia Ducati, con il vento che sferzava contro la giacca di pelle. La tensione della giornata si scioglieva lentamente a ogni chilometro.
Il mio telefono criptato vibrò in tasca. Accostai in un punto panoramico con vista sullo stretto e risposi.
«Aurora, abbiamo un nuovo lavoro», sentii la voce di Aiden. «Ti interessa?»
«Non adesso», risposi, osservando i gabbiani che volteggiavano sull'acqua. «Sono appena tornata a Seattle. Ho già abbastanza problemi reali da affrontare».
«La paga è eccellente», insistette lui. «Ed è un cliente importante: la Hall Corporation».
Per poco non mi cadde il telefono. «La Hall Corporation? Intendi l'azienda di Devon Hall?»
«Esatto. Hanno bisogno di qualcuno con le tue capacità».
La mia mente prese a correre. Era forse collegato agli uomini che avevano attaccato Devon? O era solo una coincidenza?
«Ci penserò», dissi infine, chiudendo la chiamata.
Fissai le acque che si stavano oscurando, chiedendomi a che gioco stesse giocando Devon Hall. Perché stava reclutando sia lupi mannari con eccezionali competenze mediche sia hacker?
E sapeva che entrambi gli obiettivi del reclutamento ero in realtà io?
