Capitolo 2

Il punto di vista di June

«Non ho la macchina» risposi, perché secondo mio padre avere una macchina sarebbe stata troppa libertà. Chiaramente, era solo preoccupato che la usassi per scappare e andare a vivere con mamma. Il suo fidanzato, però, non mi piaceva. Mi metteva a disagio con la sua eccessiva gentilezza, e questo mi portava a vederla solo durante le videochiamate che facevamo ogni tanto.

«Ti accompagno io, sali.»

Mi sentii strana a salire sul sedile posteriore della Ford Fusion blu di Rodney, eppure ero lì. Non avevo nessun motivo per andare, a parte la curiosità. Volevo sapere se JJ stesse bene. Non ero sicura del perché Rodney si fosse offerto di accompagnarmi, o perché mi avesse anche solo chiesto se venissi. Non ci eravamo mai parlati prima, tranne una volta durante l'ora di trigonometria, quando mi aveva chiesto in prestito una matita. Era un ragazzo intelligente e, nonostante i piercing e i capelli neri che gli ricadevano sempre sul viso, era in realtà uno dei ragazzi più dolci in circolazione.

«Come sapevi fare tutte quelle cose?» mi chiese Tiffany, girandosi dal sedile del passeggero per guardarmi. I suoi capelli biondo platino avevano riflessi di ogni colore dell'arcobaleno. Aveva una personalità molto più spumeggiante di quanto si potesse pensare, ma si abbinava alla perfezione al carattere un po' cupo di Rodney. Non c'era da stupirsi che stessero insieme da così tanto tempo e che andassero ancora d'amore e d'accordo.

«Mio padre me l'ha insegnato quando ero piccola e mi fa rinnovare il certificato ogni due anni. Ce l'ho scolpito nella memoria» risposi.

«Ha senso.» Sorrise proprio mentre la luce di un lampione entrava dal lunotto posteriore, illuminandole gli occhi azzurri e limpidi con una scintilla di interesse.

Ci mettemmo solo pochi minuti per arrivare all'ospedale. Eravamo abbastanza fortunati da averne uno in città, nonostante la nostra piccola popolazione. Si trovava in periferia e accoglieva pazienti anche dalle tre cittadine vicine alla nostra. Era il punto d'incontro delle quattro comunità, dove tutti convergevamo nei momenti peggiori della nostra vita.

Scendemmo dall'auto e ci precipitammo verso il bancone dell'accettazione, con Rodney e Tiff a fare da apripista. Avevano già portato JJ dentro, ma non vollero rivelarci le sue condizioni dato che non eravamo familiari. Così, ci sedemmo tutti nella sala d'attesa, sperando in qualsiasi briciolo di notizia che potessero darci. Avevo sentito le voci sul padre di JJ, l'ex truffatore della città, ma non l'avevo mai visto di persona. Mi chiesi quando si sarebbe fatto vivo, o se si sarebbe presentato affatto. Curiosa, tenevo d'occhio le porte dell'ospedale. Ma la persona successiva a entrare non fu altri che mio padre.

«June?» Mi chiamò per nome non appena i suoi occhi nocciola incrociarono i miei, castano scuro, individuandomi al mio posto.

«Ciao, papà.» Lo salutai con un piccolo sorriso, sapendo benissimo che dopo mi sarei beccata una ramanzina. Lui era convinto che non sarei andata alla festa, perché era quello che gli avevo detto. Avevo cambiato idea un paio d'ore dopo, ma mi ero dimenticata di avvisarlo, avendo lasciato per sbaglio il telefono a casa. Quando ti muovi a piedi, non si torna indietro una volta partiti. Adesso, probabilmente, sarei finita in punizione per una settimana, nonostante avessi diciott'anni.

«Cos'è successo?» domandò. Di solito raccoglieva prima la dichiarazione dei testimoni, quindi sapevo che non me lo stava chiedendo come padre, ma come sceriffo. Dovevo stare attenta a quello che dicevo.

«Stasera JJ stava scherzando sul bordo della scogliera, è scivolato ed è caduto» rispose Rodney al posto mio. «Tua figlia l'ha salvato quando si è accorta che non riemergeva.»

Papà spostò lo sguardo su Rodney, studiandolo per un secondo, prima di incrociare di nuovo i miei occhi. Mi stava scrutando, cercando di capire se ci fosse qualcosa di falso nelle parole di Rodney. La prima parte era ovviamente una bugia, ma dopo anni passati a vivere con papà, avevo imparato a sfoderare una buona faccia da poker e a mantenerla.

«È vero, Pulce?» mi chiese, usando il soprannome che mi aveva dato. Diceva sempre che ero la sua "June bug", la sua coccinella. Non avevo l'abitudine di mentire a mio padre, soprattutto perché se ne accorgeva sempre. Visto che Rodney aveva concluso la sua storia con la verità, decisi di concentrarmi solo su quella parte.

«Sì, l'ho tirato fuori dall'acqua e, grazie alla tua insistenza assillante nel tenermi aggiornata con il corso di rianimazione, sono riuscita ad aiutarlo.» Papà si fermò un attimo, osservandomi mentre aggrottava la fronte, accentuando le rughe ben definite che la solcavano. Stava decisamente invecchiando.

«Ottimo lavoro, Pulce. Ti porto a casa io quando ho finito qui e parleremo di questo…» disse, indicando il mio abbigliamento, ancora senza maglietta, prima di continuare. «…domani.»

«Sì, certo.» Alzai gli occhi al cielo, un gesto che sapevo detestasse.

Lui si diresse a grandi passi verso il retro per interrogare JJ. Sperai solo che gli raccontasse una storia simile alla mia. Sentivo gli occhi di Rodney e Tiffany puntati addosso mentre guardavo mio padre allontanarsi.

«Non ti preoccupa che JJ possa dire a mio padre qualcosa di diverso?» domandai, sentendomi all'improvviso più ansiosa.

«No, sa benissimo come gestire gli sbirri. E poi, siamo sempre sulla stessa lunghezza d'onda.» Rodney fece spallucce come se niente fosse, sicuro che il suo amico non avrebbe vanificato i suoi sforzi. Restammo seduti in silenzio finché mio padre non riemerse.

«Sembra solo un incidente, anche se sono certo che ci fosse di mezzo un po' di alcol.» Inarcò un sopracciglio verso Rodney, che si limitò a stringersi nelle spalle come se non ne sapesse nulla. «Lo terranno qui in osservazione per la notte, quindi voi due dovreste andare a casa» disse papà a Rodney e Tiff, prima di rivolgere lo sguardo verso di me. «Tu, vieni con me. L'infermiera Jackie ti farà un prelievo.»

«Dici sul serio, papà?!» sbottai, sapendo fin troppo bene perché Jackie dovesse prelevarmi del sangue. Non sarebbe stata la prima volta che mi faceva un test tossicologico. «Non stavo bevendo.»

Mi alzai, consapevole che le mie proteste sarebbero state inutili, ma sentendo comunque il bisogno di esprimerle. Papà mi fulminò con lo sguardo e io chiusi subito la bocca. Lasciandomi sfuggire un respiro pesante, lo seguii nel retro. Mentre passavo davanti agli altri, sentii i loro occhi su di me e uno di loro mi infilò un pezzo di carta nella tasca posteriore dei pantaloni. Avrei dovuto controllarlo una volta al sicuro nella mia stanza.

Jackie era sempre dolce. Mi accolse con un sorriso comprensivo mentre mi sedevo. Sapeva che quello di mio padre era un totale abuso di potere, ma cosa poteva fare se non il suo lavoro? Prese una piccola fiala di sangue e mi mise una garza sulla piega del gomito. Seguii papà fino alla sua ben nota auto da sceriffo e salii sul sedile del passeggero senza dire una parola. Mi faceva sempre incazzare quando faceva queste stronzate. Non che gli avessi mai dato un vero motivo per non fidarsi di me, ma a causa di tutte le cose che aveva visto fare ad altri ragazzi della mia età, si fidava di me tanto quanto avrebbe potuto lanciare la sua macchina. Quindi, per niente. Non si fidava affatto di me.

Papà mi fece la ramanzina su quanto fosse pericoloso andare a quelle feste. Disse che avrei dovuto avere più giudizio e che, se avessi bevuto quella sera, non mi avrebbe lasciata andare a New York – come se avesse voce in capitolo. Ho una borsa di studio e i soldi che ho messo da parte per tutto il liceo. Se fosse stato necessario, sarei andata a vivere da mamma durante le estati. Non sarei rimasta in questo buco di paese solo perché papà si rifiutava di lasciarmi crescere. Senza dire una parola, ricambiandolo con quel silenzio che sapevo odiava più di ogni altra cosa, tenni lo sguardo fisso fuori dal finestrino, guardando le piccole botteghe trasformarsi in casette con le luci spente. La città dormiva già profondamente alle dieci di un venerdì sera.

Mi precipitai in camera mia, sbattendo la porta per dare maggiore enfasi al mio umore nero. La porta d'ingresso si chiuse con un tonfo, facendomi capire che papà era tornato al lavoro. Aspettai qualche altro minuto, sentendo la sua macchina allontanarsi, prima di tirare fuori il foglietto dalla tasca. Aprendo la carta strappata e piegata, trovai un numero di telefono con sotto scritto "scrivimi". Non sapevo se fosse di Tiff o di Rodney, né perché uno dei due volesse che gli scrivessi. Quella sera, la mia curiosità stava venendo a galla più del solito. Afferrai il telefono dal comodino e digitai il numero. Fissai la casella di testo vuota, chiedendomi cosa avrei dovuto scrivere esattamente.

Ciao, sono June.

Digitai, cancellando subito e riprovando, e riprovando ancora.

Mi hai chiesto di scriverti, quindi eccomi. Sono June. Ehi, ho appena visto il tuo biglietto. Ecco il mio messaggio.

Ehi, sono l'idiota che non ha mai scritto a nessuno prima. Sicuro di volermi dare il tuo numero?

Gesù, perché è così difficile?

Ehi, sono June. Ho appena visto il tuo biglietto, ma non capisco perché vorresti che ti scrivessi?

Stavo per cancellare il messaggio, ma lo scoppiettio di un motore che perdeva colpi mi fece sobbalzare, troppo simile a uno sparo. Mancai il tasto per cancellare e premetti invece invio, colpendomi con forza la fronte mentre il messaggio partiva. In un istante passò da "inviato" a "visualizzato" e poi quei tre puntini mi salutarono mentre chiunque fosse dall'altra parte iniziava a scrivere. Perché sono così nervosa all'improvviso?

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