Capitolo 7

Il punto di vista di June

«È meglio che vada al lavoro. Grazie per la cena, June Bug. Tiffany, sei la benvenuta quando vuoi, ma lascia il fidanzato a casa». Lei rise, probabilmente pensando che papà stesse scherzando.

«Ci vediamo domattina» dissi, abbracciandolo per salutarlo. «Sta’ attento. Chiama alle undici e guardati sempre le spalle».

«Non morire» dicemmo all’unisono, come gli ripetevo ogni volta che andava al lavoro.

«Non ne ho intenzione. Non dimenticare le nove, June. Ti terrò d’occhio».

«Sissignore» risposi con un finto saluto militare, facendogli alzare gli occhi al cielo, leggermente irritato dalle mie pagliacciate. Quando se ne andò, finii di lavare i piatti della cena con l’aiuto di Tiffany.

«Non so come tu ci sia riuscita, ma sembra che a mio padre tu piaccia» le dissi mentre sciacquavo il mio piatto.

«Te l’avevo detto che potevo farcela» mi rispose con un sorriso arrogante.

«Scusa se ho dubitato di te».

«Non ti preoccupare. Nel giro di un paio di settimane, me lo sarò rigirato così bene che ti permetterà di venire a dormire qui». Mi fece l’occhiolino mentre metteva il mio piatto nella lavastoviglie. L’idea di un pigiama party mi entusiasmava stranamente. Era sempre stato il sogno della me bambina partecipare a un pigiama party, ma papà non mi ci aveva mai lasciata andare le poche volte che ero stata invitata. Diceva qualcosa sul fatto che fossi troppo piccola e che non sapesse come fosse la gente di quella città a porte chiuse.

«Non ne sarei così sicura» ridacchiai. «Staremo a vedere».

Dopo aver finito di pulire, Tiff se ne andò per incontrare Rodney fuori dal cancello di casa mia. La guardai salire sul sedile del passeggero, salutandola dalla porta. Dei capelli rosso fuoco di JJ non c’era traccia, segno che Rodney lo aveva piantato in asso per passare una bella serata con la sua ragazza. Poco dopo, salii in camera mia e crollai. A quanto pare, le interazioni sociali mi sfinivano più di quanto pensassi.

La sveglia suonò alle sei, spingendomi ad alzarmi e a lavarmi i denti. Visto che la sera prima non avevo avuto tempo per la mia corsetta sulla spiaggia, decisi di farla quella mattina. Partii da vicino al negozio di surf, dirigendomi verso Seaside Bites, il ristorante sul molo a un paio di miglia di distanza.

Correre lungo la riva era sempre la mia attività preferita; adoravo la sensazione dell’acqua sui piedi quando le onde si infrangevano sulla battigia. Qui correvo sempre a piedi nudi, sentendo le dita affondare nella sabbia bagnata mentre mi davo la spinta.

Ero immersa nei miei pensieri, avvolta dal suono di Dare dei Gorillaz nelle orecchie, mentre continuavo il mio percorso. In lontananza, una vibrante chioma rossa catturò la mia attenzione mentre lui si scrollava di dosso l’acqua come un cane giocherellone. In piedi sulla sabbia, la sua tavola da surf bianca appoggiata a sé, si sfilò la muta con disinvoltura, rivelando un’ipnotica distesa di tatuaggi blu e rossi. Non potei fare a meno di chiedermi perché avesse scelto solo quei due colori, ma la cosa ne esaltava innegabilmente il fascino. Determinata a non farmi sorprendere a fissarlo, distolsi lo sguardo e mi concentrai sulla strada davanti a me. Proprio quando pensavo di averlo superato senza essere scoperta, lui iniziò inaspettatamente a correre al mio fianco. Incuriosita, mi tolsi un auricolare e gli lanciai un’occhiata interrogativa.

«Adesso mi stai perseguitando, Pollyanna?» mi chiese quando si rese conto che potevo sentirlo.

«Non sono ottimista come lei. Anzi, non lo sono per niente». Le mie parole erano cariche di frustrazione, come dimostrava il tono che usai. Non lo credevo un tipo letterato, ero sorpresa che sapesse persino chi fosse Pollyanna. «E poi, sei tu quello che mi sta correndo dietro» feci notare, prima di rimettermi l’auricolare e accelerare il passo, nella speranza che mi lasciasse in pace.

Non ebbi altrettanta fortuna, perché tenne il mio ritmo con estrema facilità. Cercando di ignorare la sua presenza imponente, spinsi ancora di più, passando dalla corsetta alla corsa vera e propria. Mi fermai solo quando sentii il petto bruciare. Mi piegai in avanti, con le mani sulle ginocchia, cercando di riprendere fiato. Alzando lo sguardo, vidi che anche JJ era senza fiato, ma non quanto me. Come fa ad avere una resistenza così alta?

«Già stanca, Serafina Silente?» Mi rivolse quel suo stupido sorrisetto che mi infastidiva più di ogni altra cosa.

«Che ti prende con tutti questi soprannomi?» chiesi, raddrizzandomi.

«Ti danno fastidio, Signorina Perfettina?»

«Mi stai dando fastidio.» Alzai gli occhi al cielo, superandolo.

«Come potrei darti fastidio? Stavo solo correndo.» Fece spallucce, mantenendo quel suo sorrisetto irritante.

«Allora continua a correre, ti prego. Io vado a casa.» Mi voltai, tornando sui miei passi. Ma JJ continuava a seguirmi da vicino. «Perché mi segui?» sbottai.

«Non ti sto seguendo. La mia tavola è da questa parte. Un po' presuntuosa, eh?» Rise vedendomi arrossire. Non avevo la pelle chiarissima, ma quando arrossivo si notava sempre molto.

«Devi proprio camminarmi così vicino?» deviai il discorso, accelerando il passo per cercare di mettere un po' di distanza tra noi.

«Non so che dirti, principessa, questo è il mio ritmo normale.» Si strinse nelle spalle, adeguandosi di nuovo alla mia velocità.

«Che ti prende? Perché mi stai tormentando stamattina?»

«Tiffany non ha bisogno di nessuno che provi a cambiarla. Le bastano e avanzano i suoi genitori. Quindi non farti strane idee, capito?»

«Chi mai vorrebbe cambiarla? È perfetta. Ora, se non c'è altro, mi lasceresti in pace?» chiesi, aggrottando le sopracciglia per il fastidio.

Lui si limitò ad alzare le mani, indietreggiando e dandomi finalmente un po' di spazio. Sbuffai, alzai il volume della musica e mi allontanai a grandi passi. Il mio umore si era guastato, rovinando quella che era stata una corsetta perfetta. Odiavo iniziare la giornata di cattivo umore, così, per tirarmi su, mi fermai alla pasticceria Daffodil's Bakery per comprare i miei fagottini alla ciliegia preferiti per colazione.

«Buongiorno, June!» mi sorrise Delilah da dietro il bancone, mentre gli angoli dei suoi occhi blu scintillanti si increspavano. Era l'immagine della bellezza, anche alla sua età. Non avresti mai detto che avesse cinquant'anni; con la sua carnagione impeccabile e il viso quasi privo di rughe, ne dimostrava al massimo una trentina. Tuttavia, Delilah sorrideva troppo per non avere zampe di gallina a quell'età. I suoi capelli biondo chiaro brillavano alla luce del sole, facendola sembrare circondata da un'aureola.

«Buongiorno, Lilah. Posso avere quattro fagottini alla ciliegia, per favore?» Mi avvicinai al bancone con un sorriso altrettanto smagliante.

«Certo! Come sta tuo padre? So che i turni di notte possono essere pesanti» disse, facendo conversazione amichevole mentre metteva i dolci nella scatola bianca da pasticceria.

«Sta bene, decisamente stanco.»

«Digli di passare prima di andare al lavoro, che preparo una sfornata di biscotti freschi per la stazione, va bene?»

«Sissignora, lo farò. Sono sicura che apprezzerà. I suoi biscotti sono i suoi preferiti.» Annuii, porgendole i soldi.

«Oh no, tesoro. Sai che qui i tuoi soldi non valgono.» Scosse la testa, alzando una mano per rifiutare.

«Grazie, Lilah.» Presi la scatola e, quando si voltò, lasciai i soldi nel barattolo delle mance. Come potevo non pagarla per quelle delizie celestiali che preparava?

Quando tornai a casa, trovai papà ancora sveglio. Si era fatto una tazza di caffè e la sorseggiava seduto al tavolo. Aveva quell'espressione seria che mi fece gelare il sangue nelle vene. Lo stomaco mi si attorcigliò per l'ansia mentre mi avvicinavo al tavolo, sentendo di essere nei guai. I suoi occhi scattarono verso la sedia, dicendomi, senza parole, di sedermi. La sedia strisciò sul parquet mentre la tiravo indietro e prendevo lentamente posto.

«Ho portato i fagottini alla ciliegia di Lilah. Ha detto di passare da lei prima del turno, che vi prepara una sfornata di biscotti freschi» dissi, cercando di rompere quel silenzio carico di tensione.

«Grazie. Lo farò.» La sua espressione non cambiò mentre parlava, nonostante le parole di gratitudine.

«Vuoi dirmi cosa c'è che non va?» chiesi, incapace di sopportare oltre quella suspense.

«Non lo so, June. Dimmelo tu. C'è qualcosa che dovrei sapere?» domandò, con quello sguardo che assume quando sa già qualcosa ma vuole che sia io a dirgliela. Aveva scoperto dell'Harmonia Institute? Sapeva che non mi interessava il diritto penale?

«No?» risposi, con poca sicurezza. Onestamente, non sapevo cosa sapesse e non volevo rivelargli nulla per sbaglio.

«McBride mi ha chiamato per dirmi che stamattina ha visto te e JJ correre lungo la costa. C'è un motivo per cui te ne vai in giro con Jake Jacobson?» Il suo tono era serio, un avvertimento. Dammi una risposta plausibile o affronta la mia ira.

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