Capitolo 3
Alzai lo sguardo e vidi due occhi blu scuro che mi fissavano, una testa piena di capelli neri inclinata e labbra carnose piegate in un sorrisetto. «Ti sei persa, tesoro?»
Era… bellissimo. Con ciglia lunghe che sembravano baciargli gli zigomi alti ogni volta che sbatteva le palpebre. C’era qualcosa di innaturale nei suoi occhi, ma non faceva che accrescere il suo fascino, un fascino da ragazzo che in qualche modo riusciva a urlare pericolo. E, come il signor Varkas, era avvolto da un’aura di potere e mistero.
«No» riuscii a dire, con la voce che mi uscì roca. «Anzi, sì. Ho bisogno di aiuto per trovare il maggiordomo.»
Un sopracciglio perfettamente curato si inarcò in un’espressione interrogativa. «Gabriel? Cosa te ne fai di lui?»
Repressi l’impulso di sbuffare e scuoterlo. Anche se aveva un aspetto incredibilmente perfetto, non bastava comunque a placare la mia rabbia. Avevo ancora bisogno di acqua e di stare da sola.
«Possiamo saltare le domande? Ho solo bisogno di Gabriel perché mi mostri la mia stanza.»
Mi osservò, con gli occhi fissi su di me. «Ah» esclamò all’improvviso, come se gli fosse appena venuto in mente qualcosa. «Rosette. La figlia di Vera e la nuova aggiunta alla famiglia. Piacere di conoscerti finalmente, sorellina.»
«Come, scusa?» chiesi, con la rabbia ben chiara nella voce. «Chi diavolo sei tu per chiamarmi sorella?»
Lui si raddrizzò, squadrando le spalle, e in quel momento mi resi conto di quanto fosse alto. Non che io fossi bassa, ma in quell’istante mi sentii piccola.
«Axel Varkas» si presentò, facendo un leggero inchino.
Lo fissai, con la fronte aggrottata. «Varkas…» Lo squadrai da capo a piedi. Dagli occhi blu all’aspetto delicato. L’unica cosa che aveva in comune con l’uomo di prima era l’aura.
«Sono il figlio minore di Silas» chiarì, vedendo la domanda sul mio viso.
Annuii semplicemente. «Puoi indicarmi dove posso trovare Gabriel?»
Axel incrociò le braccia, appoggiando un fianco al muro. «Neanche un “piacere di conoscerti, fratellone”?»
«Tu. Non. Sei. Mio. Fratello» sibilai, e stavo per superarlo quando mi afferrò la mano, più veloce di un battito di ciglia, bloccandomi contro il muro e premendo il suo corpo sul mio.
«Sei sgarbata» mormorò, chinandosi per premere il naso contro il mio collo. Inspirò a fondo e poi rabbrividì, con un gemito profondo che gli risalì dalla gola. «Dio, il tuo profumo…»
Mi divincolai, disgustata e, mio malgrado, eccitata. Il suo corpo era duro. Caldo. Più caldo di quanto sarebbe stato umanamente possibile. E, inequivocabilmente, una parte molto specifica di lui si stava indurendo.
«Lasciami, Axel» borbottai, lottando per liberarmi nonostante l’umidità che sentivo tra le gambe.
Si allontanò dal mio collo e mi guardò. Trasalii, sgranando gli occhi e socchiudendo le labbra quando vidi i suoi. Erano… luminosi. Non di una luce accecante, ma emanavano un debole bagliore, appena sufficiente per essere innegabilmente non umani.
«Dillo di nuovo.»
«Lascia… mi» riuscii a dire, con un filo di voce.
Scosse la testa e i capelli gli coprirono gli occhi. Prima ancora che potessi pensare, la mia mano si allungò per scostarglieli, rivelandoli di nuovo.
«Non quello, Rosette» disse, con la voce roca. «Il mio nome… dillo.»
Le parole mi scivolarono fuori dalle labbra da sole. «Axel…»
Lui gemette, affondando di nuovo il naso nel mio collo e inspirando a fondo. Più inspirava, più si induriva, finché il suo pene completamente eretto non premette contro il mio stomaco.
«Rosette» gracchiò, strusciandosi contro di me. «Il tuo profumo mi sta facendo impazzire».
Una delle sue mani si infilò nei miei pantaloni e fu quello a farmi tornare in me. Appoggiai la mano sul suo petto e spinsi. Colto di sorpresa, barcollò all'indietro, con gli occhi annebbiati e ancora luminosi, persino più di prima.
«B-brutto cane» sbottai, con il petto che si alzava e abbassava e il viso in fiamme.
Quel bastardo matricolato ebbe la sfacciataggine di sorridere. «Quasi, ma sono molto peggio».
Gli voltai le spalle, stordita e senza fiato, e mi allontanai. Non sapevo dove stessi andando, volevo solo stare lontana da lui.
Che cazzo era stato? Non avevo mai perso il controllo prima d'ora. Ho sempre avuto il pieno controllo delle mie emozioni. L'unica persona che sia mai riuscita a farmi sbottare era mia madre. Ma anche quella era una rara eccezione.
Proprio mentre mi dirigevo verso le scale, apparve qualcun altro e mi fermai. Era in piedi all'inizio della rampa, vestito con un completo di lusso a tre pezzi e con i capelli acconciati alla perfezione.
Non mi serviva un esperto per capire che si trattava di un altro Varkas. Tutto in lui lo urlava, ma lo si capiva anche dai suoi occhi azzurri. Quegli occhi dall'aspetto innaturale.
E quegli occhi erano fissi su qualcosa alle mie spalle. Mi voltai e vidi Axel in una gara di sguardi con suo fratello. L'espressione di poco prima era sparita e il suo viso era ora pieno di spavalderia.
Distolsi lo sguardo da lui quando sentii degli occhi addosso e mi voltai di nuovo verso le scale. Lo sguardo del nuovo arrivato era ora fisso su di me. Mi sforzai di non agitarmi sotto quella sua occhiata.
A differenza del fratello, quest'uomo non aveva traccia di fascino fanciullesco. Tutto in lui suggeriva che fosse il tipo da schiacciarmi sotto le sue scarpe firmate e lucidate senza battere ciglio.
«Signorina Jansen» mi chiamò, la prima persona in questa casa a rivolgersi a me con il mio cognome. «Sono Kross Varkas. E dato che Gabriel è occupato, la accompagnerò alla sua stanza».
Si girò e salì le scale, senza voltarsi per controllare se lo stessi seguendo. Guardai alle mie spalle, ma Axel non era più lì.
Seguii Kross su per le scale e lungo un corridoio, camminandogli dietro, e lui non si voltò nemmeno una volta. Non rallentò neanche il passo. Continuò dritto e alla fine si fermò quando raggiunse il fondo, aprendo la porta.
Finalmente lo raggiunsi ed entrai nella stanza, mentre lui teneva ancora la porta aperta.
«Per ora, questa sarà la sua stanza» mi informò, con un tono freddo, come se stesse discutendo di affari.
Mi voltai verso di lui, con un sopracciglio alzato. «Per ora?»
Lui annuì senza aggiungere altro per spiegare cosa intendesse. «Allora la lascio sola». Fece per chiudere la porta, ma poi si fermò, guardandomi di nuovo. «Tenga sempre la porta chiusa a chiave».
La porta scattò con un clic sommesso mentre la chiudeva, e io rimasi immobile a lungo, a fissare il punto in cui si trovava lui.
«Tipi inquietanti» borbottai, muovendomi finalmente per andare in bagno.
Ero qui da neanche un giorno e potevo già dire che quella gente non era normale. Volevo già andarmene.
